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La pelle ferita delle città

  • Immagine del redattore: Luca Brizi
    Luca Brizi
  • 12 nov
  • Tempo di lettura: 1 min

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Vedo quei muri imbrattati, le scritte che urlano odio, e sento come se qualcuno avesse inciso una ferita sulla pelle stessa della città.Perché l’architettura, per me, è un corpo vivo. È la memoria di chi siamo stati, la traccia di mani sapienti, di menti che hanno cercato armonia tra forma e luce, tra materia e cielo.Quando quella pelle viene lacerata da parole violente, non è solo l’edificio a soffrire — è l’anima collettiva, quella che dovrebbe riconoscersi nella bellezza condivisa.

Mi chiedo spesso cosa spinga certe persone a distruggere ciò che non capiscono, a lasciare un segno che non costruisce ma cancella. Forse è rabbia, forse ignoranza, forse il bisogno disperato di sentirsi esistere, anche attraverso un atto di offesa.Eppure, ogni volta che passo davanti a un muro imbrattato, cerco di guardare oltre. Cerco il disegno originario, la cura di chi ha pensato quella facciata, la grazia di una finestra proporzionata, la pazienza di una cornice scolpita.

Credo che un giorno, forse non lontano, i ragazzi sapranno vedere quello che oggi molti non vedono più. Capiranno che ogni pietra racconta una storia, che ogni arco e ogni colonna sono gesti d’amore verso il tempo.E allora magari, invece di ferire quei muri, poseranno lo sguardo con rispetto — e vorranno custodire, non cancellare.

Perché la bellezza, anche quando viene ferita, non smette mai di respirare. Attende solo che qualcuno la riconosca di nuovo.

 
 
 

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